Una strage “pianificata in maniera minuziosa”, una azione criminale messa in atto con “lucidità e determinazione”. Con queste parole i giudici della prima Corte d’Assise di Roma descrivono i quattro femminicidi compiuti da Claudio Campiti l’11 dicembre nel 2022 nel corso di una riunione di condominio a Fidene, quartiere nell’area est della Capitale. In oltre 400 pagine i giudici motivano l’ergastolo inflitto nell’aprile scorso all’imputato che fece fuoco all’interno di un gazebo in via Monte Giberto uccidendo Nicoletta Golisano, Elisabetta Silenzi, Sabina Sperandio e Fabiana De Angelis.
Per i magistrati di piazzale Clodio l’imputato “non ha agito di impulso” o in “uno stato emotivo improvviso”. Da parte sua c’è stata “una chiara preordinazione delle modalità esecutive, come dimostrano le registrazioni delle telecamere installate presso il Poligono di Tor di Quinto, con sottrazione dell’arma da utilizzare”. Campiti ha, inoltre, “appositamente acquisito informazioni sul luogo dove si sarebbe svolta la riunione del consorzio Valleverde” e mesi prima ha iniziato una attività “di accantonamento delle munizioni” utilizzate per la strage. Per la Corte, inoltre, “non vi è incompatibilità tra il disturbo della personalità rilevato e la premeditazione, essendo rimaste inalterate le capacità di giudizio e critica, non potendo così ritenersi il proposito criminoso frutto esclusivo della alterazione della sua personalità”.
Nel procedimento era coinvolto anche l’allora presidente della Sezione Tiro a Segno nazionale di Roma che è stato condannato a tre mesi (pena sospesa) per omessa custodia. A Tor di Quinto Campiti ha preso e portato via l’arma, una Glock, poi utilizzata per compiere gli omicidi. Nella sentenza la Corte d’Assise ha escluso come responsabili civili i ministeri di Interno e Difesa e dell’Unione italiana tiro a segno in riferimento alla custodia dell’arma. Ma i giudici ritengono che all’epoca della strage, i controlli all’interno del Poligono erano di fatto inesistenti. “Non vi era alcuna prescrizione o cautela volta a scongiurare che un socio della struttura, noleggiata la pistola, attraversando il parcheggio, salisse in macchina e andasse via invece di raggiungere le linee di tiro, né erano presenti sul posto metal detector, sbarre, controlli o telecamere”.
Il Poligono, scrivono ancora i giudici, “non aveva metal detector, all’ingresso e all’uscita vi erano sbarre automatiche e non vigilate (le sbarre si aprivano automaticamente al passaggio delle auto, mentre l’ingresso pedonale era sul lato delle sbarre)”. Il bar presente all’interno della struttura “era di fatto di libero accesso, le telecamere installate non erano controllate in diretta ma solo da remoto e non vi era collegamento telefonico di tipo ordinario tra l’armeria e le linee di tiro”. Ed infine, all’uscita dell’impianto “non c’erano controlli e vigilanza: chiunque poteva entrare e uscire, a meno che qualcuno del poligono lo avvicinasse chiedendogli la tessera. Il vano uscita non era servito da telecamere funzionanti”. Ecco perché, in merito alla posizione dell’allora presidente, la Corte scrive che ha “colposamente omesso di attuare ogni misura di controllo atta a prevenire, dopo il ritiro dai rispettivi locali, l’uso incontrollato di armi e munizioni da parte del tesserato”.